Napoli, prof. universitari arrestati e il giustizialismo sconsolato del ceto «colto» » Penna Bianca

Napoli, prof. universitari arrestati e il giustizialismo sconsolato del ceto «colto»

 In Rassegna stampa

Nessuna difesa d’ufficio da parte del mondo accademico. Quella fetta di opinione pubblica vede confermata nelle inchieste la percezione di una corruttela onnipresente?

Napoli torna al centro della scena. E questa volta non per la pretesa (a mano armata) di tappare la bocca a un leader politico, ma per la rete corruttiva che avvolgerebbe tutta quanta una metropoli di tre milioni di abitanti. Difficile dire cosa sia peggio per lo spirito pubblico della città. Sta di fatto che finiscono ai domiciliari (o alla sbarra), oltre al solito drappello di politici e amministratori pubblici, alcuni pezzi pregiati della società locale: dodici professori universitari, il presidente della Fondazione Banco di Napoli, la direttrice di una soprintendenza archeologica, l’ex-presidente dell’Ordine degli Architetti, eccetera. E, per quanto le imputazioni siano diversificate, la cosa viene presentata con toni allarmistici. La corruzione sarebbe un «sistema» di appalti truccati organizzato da sindaci, politici, professionisti e accademici. Dietro il quale, scrive Il Fatto Quotidiano a caratteri cubitali, stanno «le mani della camorra». Come dire: dal clan Zagaria all’Università Federico II, dai Casalesi al Dipartimento di Progettazione Architettonica. Eppure, di fronte all’enormità del quadro disegnato dall’accusa, le reazioni sono apparse contenute, se non reticenti. I media hanno evitato di sbattere in prima pagina i presunti mostri accademici, preferendo concentrarsi sui politici. Le autorità del maggiore ateneo napoletano sono rimaste in silenzio. Intellettuali usualmente loquaci si sono mostrati assai cauti. Non c’è stato il prevedibile dibattito tra innocentisti e colpevolisti, che pure infuria in città a ogni pie’ sospinto.

Forse perché l’ipotesi di un coinvolgimento dell’Università nella rete della camorra è talmente estrema da non essere presa sul serio. O, al contrario, perché l’accademia appare così screditata, che anche le accuse più infamanti finiscono per non destare alcuno scandalo. O anche (peggio ancora) perché gli atenei non sono percepiti come strategici. Dopotutto, giorni fa, quando a finire agli arresti erano stati il direttore dell’Asl Napoli 1 e un primario del Pascale, la risposta della corporazione medica, della Regione Campania e dello stesso ministro della Sanità non si era fatta attendere. Non è stato così per la retata degli accademici. Neppure ci si è troppo affannati a capire se quei dodici professori siano finiti agli arresti perché esiste un pericolo di fuga, di reiterazione del reato, di inquinamento delle prove. O perché una misura estrema come la privazione cautelare della libertà è ormai diventata routine.

Quel che si coglie, nei silenzi e nelle cautele, è una sorta di disorientamento. Come se si volesse rimuovere la pesantezza delle accuse formulate dalla Direzione Distrettuale Antimafia. L’ipotesi cioè che l’Universitas studiorum sia finita all’inferno, laddove piccole corruzioni s’intreccerebbero, anello dopo anello, con le grandi reti criminali. Uno scenario che dovrebbe apparire, anche sul piano psicologico, insopportabile. Tanto più insopportabile per i colleghi degli inquisiti, cioè per gli accademici napoletani.

Viene il sospetto che l’opinione pubblica «colta» finisca per attestarsi su un giustizialismo sconsolato, che nelle inchieste giudiziarie vede confermata la percezione di una corruttela onnipresente. O che all’opposto, ritenendo poco credibile la magistratura, non dia più peso alle sue accuse. Un’alternativa evidentemente pericolosa. Rispetto al quale esisterebbe pure una terza strada: la presunzione di innocenza. Basterebbe convincersi che è diritto inviolabile di ogni indagato essere considerato innocente fino a prova contraria. Bisognerebbe ricordare che, per la sua stessa funzione, la magistratura inquirente ha un approccio colpevolistico, ma che questo è solo un versante della giustizia, essendovene un secondo, decisivo, il quale si esplica attraverso la magistratura giudicante e nei diversi gradi di processo. Considerazioni fin troppo ovvie, che tuttavia sembrano poco introiettate da un’opinione pubblica in balia di populismi giustizialisti, processi mediatici o soltanto scetticismo. Nasce qui il peso ideologico che ha assunto nel nostro Paese la coppia giustizialismo-garantismo. Il primo finendo per essere un’arma impropria della lotta politica. Il secondo, l’espressione di una generica sfiducia verso un organo dello Stato. Dalla trappola, nell’attesa di una riforma della giustizia, non c’è modo di uscire se non recuperando la cultura dell’innocenza.

Paolo Macry

Fonte: Corriere del Mezzogiorno

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