La riforma del processo penale è un passo indietro: fermatela, finché si può
Alla vigilia del voto in Parlamento sulla riforma del processo penale, il ministro della giustizia Andrea Orlando ha criticato con durezza la decisione delle camere penali di proclamare una nuova astensione dalle udienze, avanzando il dubbio che l’interventismo dell’avvocatura dipenda da una malcelata volontà di «entrare nella partita politica». È come se il ministro facesse ogni sforzo per non vedere la gamba tesa con la quale da anni la magistratura entra nel dibattito sulla giustizia. Sforzo complicato quello del guardasigilli, perché mentre le camere penali provano a farsi sentire, nel silenzio assordante della stampa, con iniziative che non riprende nessuno, la magistratura associata è praticamente di casa a via Arenula, e finisce sui giornali ad ogni parola, anche solo sussurrata. Piercamillo Davigo è ancora una star coccolata dalle tv, oltre che un papabile primo ministro per i Cinquestelle; l’avvocato Beniamino Migliucci è ignoto ai salotti televisivi e al grande pubblico. E solo una buona dose di ostinazione può indurlo a girare in lungo e in largo il Paese per raccogliere le firme sulla separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e inquirenti: nessuna maggioranza politica, plausibile in Italia, la prenderà mai in considerazione.
Eppure Orlando è turbato dall’interventismo degli avvocati, non altrettanto dagli inviti perentori della sesta commissione del Csm a cambiare la norma che impone alla polizia giudiziaria di riferire l’esito delle indagini anche ai propri superiori nella scala gerarchica, e non solo ai pm inquirenti: la norma dispiace a una parte dei magistrati, e purtroppo il caso Consip, con le disinvolte manipolazioni del capitano Scafarto, ne mostra un opaco perché. Il pm, che in tutta la fase delle indagini preliminari ha una posizione di primazia assoluta nei confronti della difesa, pretende il totale e incondizionato controllo dell’investigazione attraverso un assoggettamento, non solo funzionale, ma organico, degli ufficiali di polizia, chiamati a rispondere solo a lui e non anche ai propri capi. Così il rischio che la polizia giudiziaria diventi una polizia privata è diventato realtà nei mesi scorsi a Napoli.
Anche di questo il guardasigilli è parso non preoccuparsi troppo, mentre ora reclama la fiducia sulla riforma del processo penale, nonostante farvi ricorso su materie così delicate, che chiamano in causa diritti fondamentali, sia una evidente e grave forzatura. Lo ha riconosciuto ieri la stessa magistratura associata, per bocca del suo nuovo e più mite presidente, Eugenio Albamonte.
Il governo pare invece intenzionato ad accontentare Orlando, con l’avallo, si sussurra, perfino dei vertici istituzionali. Dopo le fibrillazioni seguite al flop della legge elettorale, la riforma del guardasigilli sembra la prima stampella a cui appendere la fine della legislatura. D’accordo, il pragmatismo del fare, dopo tante chiacchiere, è una surroga alla debolezza delle ragioni politiche che tengono insieme la maggioranza, e anche un comprensibile tentativo di rimediare alla perdita di senso della politica nella percezione dei cittadini. Ma ci sono modi migliori per giustificare la durata di un governo, e ragioni di diritto e di civiltà per non approvare una riforma che riporta indietro l’orologio della giustizia.
Tre misure di questa legge nessuna coscienza democratica e liberale può accettare. La prima è quella che allunga la prescrizione di tre anni per tutti i reati fino al giudicato, e la áncora al massimo di pena previsto per ciascun reato. Il risultato è la vergogna di indagini e processi che, anche per reati di lieve-media entità, possono superare i dieci anni, e nei casi corruzione possono raggiungere i due decenni. Un tempo che è da solo una pena, allo stesso modo per innocenti e colpevoli. Di questa giustizia il ministro Orlando vuol farsi vanto di fronte a un’opinione pubblica ancora in buona parte forcaiola, mentre accusa gli avvocati di fare politica se protestano contro l’inciviltà che ne deriva?
La seconda misura riguarda la delega del Parlamento al governo per sanare la piaga delle intercettazioni. Ma la terapia è peggiore del male. Perché si propone di limitarne la diffusione e, allo stesso tempo, di facilitarne l’acquisizione. Arrivando a consentire al pm la possibilità di intercettare a telefono spento senza autorizzazione preventiva, salvo poi chiedere la convalida al gip a cose fatte. La strada a questo abuso civile l’ha aperta la Cassazione. E siccome in questo Paese le sentenze dei magistrati sono leggi per la politica, il governo la fa sua.
Qui si compie quella che abbiamo già definito la confusione tra il dito e la luna: si vuole far credere che il problema delle intercettazioni sia la loro abusiva divulgazione, cosicché basterà qualche criterio interpretativo di pertinenza per i magistrati e qualche sanzione per i giornalisti. Si finge di ignorare che la gogna della condanna mediatica, a cui si è ridotto il processo penale in Italia, è figlia di indagini e castelli accusatori costruiti sul mero assemblaggio di conversazioni captate, spesso prive di alcun riscontro probatorio. Così, in nome di una mistica della trasparenza, la casa di vetro del Paese è diventata una casa degli orrori.
Da ultimo, la riforma trasforma l’interrogatorio a distanza da eccezione, giustificabile solo in casi estremi, in una prassi quasi ordinaria, per consentire risparmi alle casse dello Stato, ma con serio pregiudizio per l’esercizio del diritto di difesa e per la natura stessa del processo. Immaginate che cosa significhi per un imputato, magari innocente, far valere le sue ragioni dal carcere attraverso un monitor, mentre in aula la corte decide il suo destino arbitrando la contesa tra pubblici ministeri e avvocati.
Non ce n’è abbastanza perché nel governo si muova qualche obiezione, prima che sia troppo tardi? Siedono, al fianco di Gentiloni, ministri di cultura liberale, capaci di non cedere alla piazza? Alfano, leader dei centristi e già guardasigilli, accetta di votare una fiducia abnorme su un provvedimento abnorme? Renzi è capace di uscire dal tatticismo che ha segnato il suo atteggiamento sulla giustizia, per spiegare agli italiani se, tra i deboli che la sua sinistra liberale si propone di tutelare, ci sono anche gli imputati? Tutti, imputati ricchi e poveri, potenti e marginali, allo stesso modo deboli di fronte a un sistema che somministra un’inaccettabile quota di ingiustizia e di dolore.
Né valga l’obiezione con cui in questi mesi il ministro Orlando ha risposto alle critiche di merito sulla riforma: e cioè, se salta la legge, salta anche la delega sull’ordinamento penitenziario, quella sì diretta a lenire le ferite dei deboli, i detenuti. Si stralci questa parte della legge, la si approvi, ma senza usarla come uno scudo per far passare ciò che in un Paese civile non può passare.
Non c’è ragion di Stato che giustifichi una piega simile a quella che il Parlamento si appresta a prendere. Dentro la riforma del processo penale i diritti cedono alle ragioni del potere. C’è ancora qualche ora per pensarci, la si usi per riflettere bene, prima di far compiere alla giustizia italiana un altro brusco passo indietro, e a una parte della magistratura un altro deciso passo avanti nel mettere sotto tutela i diritti e la democrazia.
Alessandro Barbano
Fonte: Il Mattino