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Una settimana di giustizia “all’italiana”

 In Rassegna stampa

Si chiude una settimana ricca di eventi riguardanti la giustizia (in Italia e a Napoli), all’apparenza slegati tra loro,  in realtà uniti dall’essere tutti causa ed espressione della drammatica crisi in cui versano le istituzioni del nostro Paese, in cui sembra sia andata smarrita persino la percezione del valore dei principi fondamentali della civiltà giuridica.

Ricorrendo, al solito, a un voto di fiducia – sintomo anch’esso dello stravolgimento dei rapporti governo/parlamento –, il governo ha imposto l’approvazione della riforma del processo e del codice penale, con norme delle quali non si può dire neppure che «nel migliore dei casi non provocheranno danni». Se si eccettuano, infatti, poche disposizioni condivisibili – quelle relative all’ordinamento penitenziario o che introducono la possibilità di estinguere lievi reati come la diffamazione o la truffa, con una «condotta riparatoria» consistente fondamentalmente nel pagamento di un risarcimento, che però non tutti saranno in grado di corrispondere (il che provocherà ulteriori controversi e ricorsi) – molte delle nuove misure mettono infatti seriamente a rischio diritti inviolabili dei cittadini, senza incidere sui tanti (e noti) mali che affliggono la giustizia.

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Ciò che procurerà effetti devastanti sull’intero sistema sarà la nuova disciplina della prescrizione, che in caso di condanna in primo grado sarà sospesa per 18 mesi e di altri 18 se l’appello avrà lo stesso esito (e per periodi più brevi in altri casi). Con il che, invece di ridurla come esige la Corte dei diritti dell’uomo, la irragionevole durata dei processi può diventare infinita, con un aggravamento delle violazioni, ormai abituali, del principio del giusto processo.

Viene ampliata la possibilità di celebrare processi «a distanza» prevista ora solo per quelli di mafia. Il ricorso al collegamento televisivo sarà ammesso pure per altri reati e anche per i testimoni e i collaboratori di giustizia. È evidente che la lontananza tra imputato e difensori, pm, testimoni ecc. ostacolerà la «partecipazione piena» all’esercizio del diritto alla difesa sancito dalla Costituzione e che, secondo la Corte, «non può essere sacrificato per nessun motivo».

La legge affida poi, la disciplina delle intercettazioni al governo. Che dovrà entro tre mesi emanare un decreto delegato con norme che impediscano (come?) la pubblicazione di conversazioni e notizie irrilevanti o relative a estranei al processo. Il pm dovrà assicurarne la riservatezza e custodire quelle non utilizzate, che potranno essere solo ascoltate dai giudici o dai difensori. Molto discutibile è il ricorso al decreto delegato governativo in materia così delicata, che incide anch’essa pesantemente sulle libertà personali del cittadino e sul diritto costituzionale alla riservatezza delle comunicazioni. Ed è grave (e sarà fonte di controversie) che, tale delega a legiferare sia stata conferita senza la indispensabile «determinazione» di  principi  e criteri «chiari e definiti» richiesta dalla Costituzione. Per non parlare della preoccupante estensione agli altri reati della possibilità –  a suo tempo introdotta da una norma speciale per quelli di mafia, terrorismo, ecc. – di utilizzare intercettazioni ottenute utilizzando virus informatici a telefoni spenti. Per di più, incredibilmente, tali intercettazioni, particolarmente subdole, potranno essere effettuate «senza autorizzazione preventiva» del giudice. Mi fermo qui.

Insomma con l’approvazione della decantata riforma il cittadino ha ben poco da sperare in un miglioramento reale del miserevole stato della giustizia «all’italiana». A proposito del quale posso ora (per lo spazio) solo citare due episodi appena verificatisi, che riguardano Napoli, la certezza del diritto, la serietà delle istituzioni. L’annullamento sacrosanto da parte del Consiglio di Stato della decisione del Tar che aveva sospeso dall’ufficio, con molti suoi colleghi (tutti riammessi in servizio), il direttore del Museo archeologico Paolo Giulierini e l’indecorosa inerzia del Csm, lacerato dagli interessi correntizi, che – pur presieduto dal Capo dello Stato – non ha ancora provveduto a nominare il nuovo procuratore capo di Napoli. Se ne parlerà chissà quando, nonostante le solenni promesse fatte, anche a questo giornale, da autorevoli suoi componenti.

Che dire? Forse ai napoletani non resta altro che sperare che venga davvero eretto alla Rotonda Diaz, dinanzi al perenne «baffo» scoglioso «temporaneamente» piazzato nel golfo alcuni anni fa, là dove N’Albero allietò lo spirare del 2016 e il nascere del ’17,  il nuovo capolavoro pop di cui il Comune ha dato festosa notizia: il  beneaugurante «Corno rosso», alto più di sessanta metri, «simbolo superficialmente profondo» (per Niola!) della nostra città. Può darsi che toccandolo (magari di soppiatto) qualcosa si risolva.

Luigi Labruna

Fonte: La Repubblica

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