Troppo diritto, pochi diritti
Il nostro generoso ordinamento ospita 35mila reati (stima del Consiglio d’Europa, 2012). Per castigarli abbiamo armato 4 forze di Polizia nazionali (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di finanza, Polizia penitenziaria), che rispondono a 4 diversi ministeri (Difesa, Interno, Economia, Giustizia). In proporzione i loro uomini (310 mila, uno ogni 190 abitanti) sono il doppio rispetto all’Inghilterra (un agente ogni 390 abitanti), il 40% in più rispetto alla Francia e alla Germania (un agente ogni 280 abitanti). Ma li fronteggia un esercito altrettanto numeroso d’avvocati (246 mila), che piazza l’Italia al secondo posto in Europa (dopo la Spagna) in questa classifica togata. Da qui la colata lavica che sommerge la giustizia penale (1,24 milioni di processi pendenti in tribunale, al 30 settembre 2016), il cui arretrato infatti resta stabile, quando nella giustizia civile si è alleggerito del 20% negli ultimi tre anni. Da qui, infine, la doppia ingiustizia allevata dal nostro sistema di giustizia. Verso le vittime dei reati, con un milione e mezzo di processi prescritti in un decennio. E verso il popolo dei rei, attraverso il sovraffollamento delle carceri. Nel 2006 fu tamponato con l’indulto, salvo ripetersi nel 2012 con cifre ancora più imponenti (68 mila detenuti per 45 mila posti letto). Ora va meglio, ma sempre peggio rispetto ai parametri della normalità (tasso d’affollamento al 108%). Per forza: l’abuso del diritto penale rende abusivi sia i ladri che le guardie, ne gonfia gli organici, ne scompiglia i ruoli. Sennonché l’eccesso di divieti e di manette non lascia in panne soltanto la macchina penale. E non dipende dalla supplenza dei magistrati sui politici, né dall’invadenza dei politici sui magistrati. Dipende piuttosto da una questione culturale, che investe il modo stesso con cui ci rapportiamo gli uni agli altri, le condizioni del nostro vivere comune. E in ultimo apre una ferita nel corpo vivo della democrazia italiana. Sta di fatto che le istituzioni dovrebbero esserci amiche; il più delle volte le percepiamo, viceversa, come nemiche. Per innumerevoli ragioni, che in Italia derivano anche dai percorsi della nostra storia nazionale, dalla fragilità del nostro Stato. Ma derivano altresì da un malinteso circa il ruolo stesso del diritto, e quindi delle sentinelle del diritto. Come dicevano gli antichi romani? Dura lex, sed lex. E dunque la spada della legge, il bastone della legge. Da qui un proibizionismo a tutto tondo, che non sa più distinguere fra vittime e colpevoli. In sintesi: troppo diritto, pochi diritti. E di conseguenza molta repressione, nessuna comprensione. Le prove? Un paio di settimane fa il Consiglio d’Europa ci ha appuntato sul petto una medaglia: vantiamo il record europeo di detenuti per droga. Un crimine assurdo, quantomeno rispetto al consumo di cannabis, che coinvolge oltre 6 milioni di italiani: tutti delinquenti? Ciò nonostante, il disegno di legge che ne disporrebbe la legalizzazione – sorretto da 221 deputati – rimane fermo al palo. Eppure il proibizionismo non risolve i problemi: li crea. Vale per la marijuana, vale per la prostituzione o per il gioco d’azzardo, come in passato valeva per l’aborto. Ma invece no, in Italia i nuovi reati piovono come un acquazzone d’autunno. A ciascun giorno la Registro Stampa del Tribunale di Padova (n° 1964 del 22 agosto 2005) Phoca PDF Ristretti Orizzonti – www.ristretti.org Troppo diritto, pochi diritti sua pena, recita il Vangelo di Matteo; e i nostri politici lo prendono sul serio. Solo a considerare gli ultimi mesi, il Parlamento ha introdotto i reati di frode processuale, depistaggio, intermediazione illecita, omessa bonifica, impedimento di controllo, omicidio stradale, e via punendo e castigando. Tuttavia il diritto non serve unicamente per reprimere; può anche svolgere una funzione “promozionale”, per usare l’espressione resa celebre dagli studi di Norberto Bobbio, sul volgere degli anni Sessanta. Questa categoria evoca l’adozione di specifiche tecniche d’incoraggiamento – un premio, un contributo a fondo perduto, un’esenzione fiscale – che s’aggiungono alle tradizionali misure repressive. Le prime intendono propiziare i comportamenti indicati dalla norma; le seconde si limitano invece a scoraggiare i comportamenti non desiderati. Così, se amo gli animali, se voglio contrastare il randagismo, ho sempre due leve fra cui scegliere: posso multare chi abbandoni il proprio cane per strada, ma posso anche premiare chi deciderà di prendersene cura. E la seconda soluzione non soltanto può rivelarsi più efficace della prima, ma ha inoltre il vantaggio di rendere le istituzioni più simpatiche, più cordiali. Risparmiandoci una vita da cani.
Michele Ainis – La Repubblica
Fonte: Ristretti Orizzonti