Storia dell’amnistia, da Togliatti ai giorni di Di Pietro e Borrelli
I Papi l’hanno chiesta, Marco Pannella ne ha fatto per anni il campo della sua battaglia, ma dal 1990 è scomparsa dall’orizzonte. A Pasqua si terrà a Roma la Quinta marcia per l’Amnistia, organizzata dal Partito Radicale. Marco Pannella coniò un’efficace espressione per spiegare l’importanza della clemenza.
Egli la invocava per la Repubblica, per rientrare nella legalità e porre fine alle violazioni della Costituzione nella gestione del sistema penitenziario, nella durata dei processi, nell’utilizzo della prescrizione nascosta conseguente all’applicazione discrezionale dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte dei magistrati. “Amnistia per la Repubblica” era lo slogan di Pannella. La storia dei provvedimenti di clemenza di un Paese racconta, infatti, più cose di quanto si possa immaginare. L’amnistia e l’indulto – a volte anche il provvedimento di grazia – sono atti politici a tutto tondo. La clemenza porta sempre con sé un’attenzione particolare ai rapporti tra Stato e magistratura, tra esecuzione della pena e reinserimento sociale, tra eventi di particolare rilievo e opinione pubblica, ed è accompagnata sempre da una tendenza a un particolare intento di riscrittura della storia, riscontrabile nei dispositivi legislativi: accertare la verità, farla dimenticare o renderla del tutto illeggibile. Stéphane Gacon nel suo libro “L’Amnistie” (2002) classificava la clemenza di Stato in tre tipologie differenti: l’amnistia-perdono, atto di generosità tipico dei regimi totalitari; l’amnistia- rifondazione, che interviene per riunificare un Paese diviso; l’amnistia-riconciliazione che segue la fine dei regimi dittatoriali.
L’Italia repubblicana ha concesso una trentina di provvedimenti di clemenza, tra amnistie e indulti. L’ultima amnistia è del 1990, mentre nel 2006 fu approvato l’ultimo indulto. Terminate le drammatiche vicende politiche e militari che portarono alla caduta del regime fascista, lo strumento dell’amnistia fu utilizzato tra il 1944 e il 1948 per vanificare la vigenza della normativa penale del regime, il codice Rocco, nei confronti dei delitti politici commessi durante la Resistenza, o nel periodo successivo. È interessante notare come, all’epoca, il tentativo del legislatore fu di chiudere con il periodo dittatoriale e la sua legislazione penale, al fine di far nascere lo stato “nuovo” e far sì che questo trovasse in sé la propria legittimità giuridica e non nelle leggi dello Stato precedente. Un tentativo che, però, rimase tale. Per Piero Calamandrei, infatti, mancò sul terreno giuridico della forma “lo stabile riconoscimento della nuova legalità uscita dalla Rivoluzione”. Ed è altrettanto vero che i provvedimenti di amnistia di quel periodo ebbero in comune una natura delegittimante nei confronti della Resistenza, in quanto le azioni commesse durante la lotta antifascista vennero considerate alla stregua di reati comuni, anche se motivati da eccezionali contingenze. Si restava a tutti gli effetti all’interno del recinto dell’art. 8 del codice penale, che definisce come delitto politico: “ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato politico il delitto comune determinato in tutto o in parte da motivi politici”. Il decreto presidenziale n. 4/1946, conosciuto con il nome di “amnistia Togliatti”, all’epoca guardasigilli della Repubblica, tentò di consegnare all’oblio non solo i reati connessi all’attività partigiana, ma anche i reati legati alla collaborazione con l’esercito tedesco di occupazione, pur con numerose eccezioni e sollevando numerose polemiche. L’uomo dalla stilografica con l’inchiostro verde (cioè Togliatti) scommise sul futuro per mettere fine a un possibile ciclo di rese dei conti, ma fu accusato, in nome della sua proverbiale “doppiezza”, di aver aperto le porte del carcere ai fascisti e ai repubblichini imprigionati subito dopo la Liberazione. Sta di fatto che, forse anche a causa di un’interpretazione distorta del testo del decreto (scritto, invero, con un linguaggio giuridico assai poco limpido), tra i 7061 amnistiati, 153 erano partigiani, e 6.908 fascisti.
Negli anni 50 e 60 i provvedimenti di clemenza furono nove, di cui cinque strettamente connessi sia a fatti politici legati alla scia lunga del dopo- guerra, sia ai movimenti della fine degli anni 60, con l’attribuzione di reati commessi in occasione di agitazioni e manifestazioni studentesche e sindacali (amnistia del 1968). Tutti e cinque questi provvedimenti comportarono la concessione
sia di amnistia, sia di indulto. Il primo fu nel 1953 (7.833 amnistiati) e l’ultimo nel 1970 (11.961 amnistiati); gli altri furono concessi nel 1959 (7.084 amnistiati), nel 1966 (11.982 amnistiati) e nel 1968 (315 amnistiati). Dopo il 1970 non ci furono più amnistie per fatti politici.
L’amnistia del 1968 fu particolarmente importante perché ebbe come oggetto esclusivamente reati politici e sociali. Il senatore Tristano Codignola del Partito Socialista nel presentare il provvedimento al Senato disse: “Appare quindi evidente che, nell’interesse stesso della democrazia, nell’accezione aperta e progressiva voluta dalla nostra Costituzione, occorre procedere di pari passo alla realizzazione di profonde riforme strutturali e alla creazione di un clima maggiormente democratico ed antiautoritario nel Paese”.
Con l’amnistia del 1968, si chiuse finalmente il ciclo legato alla guerra di Liberazione, si aprì però il capitolo che precedette gli anni di piombo. E per la prima volta nel 1970 fecero capolino nell’amnistia il riferimento ai reati in materia tributaria e nell’indulto il riferimento a reati in materia di dogane, di imposta di fabbricazione e di monopolio. La giovane Italia del primo dopoguerra diventava maggiorenne e i reati comuni, al posto di quelli politici, iniziarono a catturare sempre più l’attenzione del legislatore: un’attenzione che, come vedremo, costerà cara. Nel 1982 e 1983 furono approvati due provvedimenti di sola amnistia ed esclusivamente per reati finanziari. Il clima iniziò a farsi pesante e il parlamento venne accusato di difendere corrotti e concussi tanto che, dopo qualche anno, il 6 marzo del 1992, il Parlamento operò una revisione costituzionale modificando profondamente la ratio dell’articolo 79 della Costituzione in materia di concessione di amnistia e indulto. Nel testo voluto dai Padri Costituenti amnistia e indulto erano concessi dal Presidente della Repubblica, previa legge di delegazione da parte delle Camere, approvata a maggioranza semplice. La modifica introdotta nel 1992 fece sì che questi provvedimenti di clemenza potessero essere concessi solo con una legge deliberata in ogni articolo e nella votazione finale dalla maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna
Camera.
L’innalzamento del quorum necessario all’approvazione del provvedimento fu deciso sull’onda dell’emotività suscitata nella piazza dallo scandalo di “Mani Pulite” per evitare il ripetersi di amnistie “concesse a cuor leggero”. Erano i tempi del lancio delle monetine davanti all’Hotel Raphael e la piazza esigeva una svolta nel rispetto della penalità. Fu in quel periodo che prese
il via una prima trasformazione dei modelli istituzionali che lentamente portò al trasferimento dei sistemi di controllo sociale dalle forme di protezione a quelle della punizione. La grande crisi economica degli anni successivi portò a compimento questa operazione di trasformazione. L’insicurezza sociale che ne è scaturita si è, infatti, rivolta al sistema penale, nella forma dell’esercizio delle funzioni repressive. Il numero dei reati inseriti del codice penale Registro Stampa del Tribunale di Padova (n° 1964 del 22 agosto 2005) Phoca ha continuato a crescere insieme alla domanda di penalità, portando in pochi anni a raddoppiare il numero di detenuti delle carceri italiane: dai 30mila degli anni Novanta ai quasi 60mila dei nostri giorni. Il mutamento delle relazioni sociali e di potere e il tramonto di un certo tipo di welfare hanno condannato qualsiasi progetto di amnistia in fondo al cassetto delle priorità. Le carceri italiane hanno così cominciato a conoscere il sistematico sovraffollamento e i trattamenti inumani e degradanti riservati alla popolazione detenuta.
A ben vedere, quindi, la richiesta di amnistia (e indulto) sostenuta con forza dal Partito Radicale non è per un provvedimento clemenza. Quella che si chiede non è la amnistia- amnesia; è, invece, la richiesta di una amnistia politica per porre fine al sovraffollamento cronico e inumano delle nostre carceri e alla intollerabile lentezza dei processi, che hanno fatto meritare allo stato italiano plurime condanne dalle Corti europee. In altre parole, un’amnistia per porre le radici di una Giustizia (più) Giusta.
Massimo Lensi
Fonte: Il Dubbio