Se il magistrato e il figlio del narco-trafficante arrivano alle stesse conclusioni
“Coincidenze”, che tuttavia un loro significato devono pur averle. Il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone “riflette” ad alta voce sui modi più efficaci per contrastare il traffico di droga; confida: “Ero assolutamente contrario all’idea della legalizzazione, perché non mi convinceva gran parte degli argomenti. Adesso ho un po’ cambiato posizione”.
Cantone si pone una domanda, che è la domanda: “Una legalizzazione di droga controllata, anche nella modalità di vendita, non potrebbe avere effetti migliori rispetto allo spaccio che avviene alla luce del giorno nella totale e assoluta impunità che riguarda amplissime fasce della popolazione giovanile?”.
E ancora: “È un po’ ipocrisia all’italiana, ci nascondiamo dietro il proibizionismo sapendo che quelle norme servono a riempire le carceri, di extracomunitari in gran parte, e nessuno si preoccupa del fenomeno che cresce”.
Quasi contemporaneamente, in un albergo romano, ho incontrato un quarantenne colombiano, con un nome “pesante”: Juan Pablo Escobar, figlio del famigerato narco-trafficante. Qualcuno se lo ricorderà: feroce, spietato, ucciso nel 1993 a Medellin. A un certo punto lui e la sua banda di narco-trafficanti sono giunti a controllare circa l’80 per cento della produzione della cocaina, era ricchissimo, potentissimo. Per molti anni in Colombia lui e i suoi complici hanno fatto il buono e il cattivo tempo, e potevano contare su ramificate e potenti complicità: nel suo paese e in tutti gli stati americani, Stati Uniti compresi. Fino a quando, evidentemente, ha fatto il passo più lungo della gamba, fino a quando ha dato davvero troppo fastidio ai suoi complici e protettori; così, come spesso accade, e non solo in Colombia, lo hanno “venduto”, ed eliminato. Juan Pablo ha una quarantina d’anni; non ha nulla a che fare con il mondo del padre, fa l’architetto, vive in Argentina; quando hanno ammazzato il padre, con la famiglia ha lasciato il paese, per anni, nel timore di vendette e ritorsioni ha vissuto da clandestino; poi ha detto basta, e ha ripreso il suo nome. Da qualche tempo tiene anche conferenze, incontra i figli delle vittime del padre, lavora per quella che chiama “la necessaria riconciliazione”, racconta la sua esperienza di figlio di uno dei più conosciuti e potenti narco-trafficanti del mondo. Ha scritto un libro, “Gli ultimi segreti dei Narcos”, pubblicato in Italia da Newton Compton. Descrive il padre, che ha conosciuto solo da bambino, come persona affettuosa, protettiva. Non stupisce: accade che i criminali siano ottimi genitori; anche i macellai nazisti di giorno uccidevano migliaia di ebrei nelle camere a gas; la sera giocavano con i figli e amabilmente suonavano il pianoforte. Juan Pablo scopre chi è realmente padre quando ha sette anni, è lui che glielo dice. Racconta che suo padre certamente è responsabile al cento per cento per quello che ha fatto, ma che al tempo stesso è stato utilizzato politicamente: aveva relazioni inconfessabili con la CIA americana, per le attività anticomuniste nel centro e nel sud America e in particolare contro il Nicaragua sandinista. Capitoli di storia, dice, ancora tutti da scrivere.
Sono trascorsi più di vent’anni da quando Pablo Escobar è stato ucciso. Gli chiedo com’è, oggi, la situazione. “Possono uccidere, in un giorno solo tutti i narco-trafficanti, risponde, ci sarà sempre qualcuno che sarà pronto a prendere il loro posto, e aggiunge: se possibile, la situazione è perfino peggiorata. Solo se ne parla di meno”.
Gli chiedo quale può essere secondo lui il possibile rimedio. “La legalizzazione della droga”, risponde senza esitazione. Me lo faccio ripetere, nel timore di non aver ben compreso, anche se il suo spagnolo è molto semplice e chiaro: “Legalizzare”, scandisce. “Lo dice la storia: la politica proibizionista è completamente fallita. Ha solo arricchito i narco-trafficanti. Se la droga fosse stata legale trent’anni fa, mio padre e tanti altri come lui non ci sarebbero mai stati”. Curioso che nelle stesse ore un magistrato impegnato nella lotta alla corruzione e il figlio di uno dei più sanguinari narco-trafficanti del mondo giungano alla stessa conclusione; e prima di Cantone, più o meno nello stesso modo si era espresso il responsabile della Direzione Nazionale Antimafia Franco Roberti; e altri ancora.
Quanto basta per occuparsene, dal punto di vista giornalistico, conoscere i motivi per cui si arriva a queste conclusioni, si avanzano queste proposte. Naturalmente non se ne farà nulla. Al massimo, obtorto collo, accadrà di assistere a stucchevoli dibattiti dove uno dice le ragioni del SI e un altro quelle del NO. Perché da quando si è inventata questa maledetta par condicio bisogna sempre e comunque che ci sia un favorevole e un contrario. Non basta far conoscere in modo “neutro” e completo che cosa si propone e perché.
Anche in passato: se si voleva informare come sia necessario vaccinarsi contro il morbillo o la meningite, ecco che bisogna che in studio ci sia qualcuno che dice che il vaccino “è cattivo”, e poco importa se allo scienziato si oppone un esperto di canzonette anni Settanta. Così, per sapere perché qualcuno che lavora sul campo suggerisce di farla finita con la legge Fini-Giovanardi e percorrere altre strade, bisognerà “obbligatoriamente” ospitare anche il parere di chi, senza alcuna preparazione e cognizione, ci assicura che uno spinello è qualcosa di demoniaco.
D’accordo, il “battibecco” è meglio dell’attuale silenzio. Ma non sarebbe ora di piantarla con questa parossistica par condicio e limitarsi a informare e raccontare i fatti, man mano che accadono?
Valter Vecellio