Il punto sul Cova di Viggiano tra domande inevase e delicate questioni di sicurezza sull’ambiente » Penna Bianca

Il punto sul Cova di Viggiano tra domande inevase e delicate questioni di sicurezza sull’ambiente

 In Rassegna stampa

Intervista a Bolognetti «Dubito che la perdita di greggio sia iniziata il 23 gennaio. Sull’informazione c’è ancora molto da fare»

Come è noto, due giorni fa il Tar della Basilicata ha confermato la sospensione delle diffide che la Regione aveva fatto all’Eni relativamente all’uso di tre dei quattro serbatoi del centro oli Val d’Agri di Viggiano, la cui attività è stata sospesa, con una delibera, per 90 giorni, il 15 aprile scorso.
Le diffide avevano l’obiettivo di permettere all’Eni di usare solo il serbatoio dotato di un doppio fondo e di svuotare gli altri tre, che ne sono privi. Ma due serbatoi rappresentano il numero minimo perché l’intera attività del Cova possa essere proseguita. È importante allo stato attuale delle cose avere ben chiaro il quadro della situazione e fare delle valutazioni sui vari eventi che comprendono la vicenda dalla sua genesi fino ai recenti sviluppi. Per farlo la nostra redazione ha deciso di intervistare Maurizio Bolognetti, leader dei radicali lucani, da sempre attento osservatore e minuzioso divulgatore di tutte le questioni connesse al Cova di Viggiano.

Si riuscità a comprendere quando è iniziata la perdita? Ufficialmente la si fa risalire al 23 gennaio perché potrebbe non essere così?
«Il 15 giugno del 2015 mi ero recato a Viggiano perché una fonte mi aveva segnalato una potenziale perdita di idrocarburi. Pochi minuti dopo il mio arrivo, fui di fatto bloccato e un tutore dell’ordine ebbe a slacciarsi la fondina della pistola per rendere più chiara la richiesta di spegnere la telecamera. Le domande sono due: quando e quanto. Dubito che i serbatoi abbiano iniziato a perdere il 23 gennaio u.s. e temo, a giudicare dagli effetti, che si sia trattato di una perdita molto consistente e protratta nel tempo».

Con il fine di procedere con ordine, partendo dal 23 gennaio tutt’oggi risultano inevase alcune domande. Il capo impianto del depuratore consortile di Viggiano gestito da Argaip verifica la presenza di sostanze oleose dal caratteristico odore di idrocarburi. Che chiama l’ingegner Zuddas a Potenza che invece di avvisare gli organi competenti regionali, come previsto dal codice dell’ambiente, avvisa l’Eni. La quale a sua volta tramite autospurgo attua un primo tentativo di bonifica. Ma il 25 nuovamente il problema si ripresenta. Solo a seguito del rifiuto di Eni di intervenire nuovamente, specificando nella circostanza che non ritiene essere l’impianto Cova la causa della perdita, perviene denuncia ai Carabinieri e si attiva con ritardo le procedure necessarie. Che riflessione si può fare?
«Come spesso avviene, questi grandi player dell’energia provano a negare anche l’evidenza. Riflessioni? Volendo usare un eufemismo, il comportamento di Argaip è stato superficiale, mentre quello dell’Eni lo si potrebbe definire maldestro. Di certo, di fronte a quanto sta avvenendo – con gli idrocarburi che incombono alle porte dell’Agri, l’assoluta mancanza di rispetto manifestata dalla compagnia nei confronti del territorio che ospita le sue attività, nonché dei cittadini della Val d’Agri e delle Istituzioni – la promessa di Descalzi di investire miliardi è suonata quasi come uno sberleffo: assolutamente inopportuna e fuori tempo, per evitare che si arrivasse a questo punto; per far sì che il Cova, per quanto possibile, esercitasse le sue attività con un maggiore tasso di sicurezza. Paghiamo il peccato originale rappresentato dalla folla e sconsiderata decisione di aver autorizzato l’ubicazione dell’impianto a ridosso di un invaso e in un’area ricca di sorgenti. Il Centro Olio Val d’Agri, gioverà ricordarlo, in base alle Direttive Seveso, è uno stabilimento a rischio incidente rilevante. Prima o poi doveva accadere. Hanno giocato col fuoco aggiungendo rischio al rischio, cioè sommando al normale rischio di esercizio quelli connessi all’assenza di investimenti in sicurezza».

Il 3 febbraio scorso l’Eni riceve la segnalazione di uno sversamento incontrollato di petrolio. Era il risultato di una perdita uscita da microfori sul fondo di uno dei serbatoi, sono quattro, di cui non tutti provvisti di doppio fondo. Il petrolio è uscito dall’area del Cova attraverso una rete di scolo per l’acqua pluviale che risale agli anni ’80 e quindi antecedente alla costruzione dell’impianto. Singolare è però che l’Eni dichiara che non ne sapeva l’esistenza. Come è possibile?
«La storia delle attività estrattive in Lucania ci ha insegnato che la parola impossibile non esiste. Non a caso abbiamo autorizzato la reiniezione delle acque di produzione petrolifera in una zona ad altissimo rischio sismico e consentito la perforazione di pozzi in zone ricche di sorgenti. Impossibile? No, l’assoluta normalità, purtroppo».

Ma vi è di più, perché la perdita finisce in un tombino, a sua volta non censito né dall’Eni né dalle autorità locali e arriva fino al consorzio di depurazione delle acque industriali dove l’Arpab poi rileverà la contaminazione. Ancora, come è possibile?
«Verrebbe quasi da dire che il fatto che la perdita si sia infiltrata nella condotta del depuratore sia stata una fortuna. Proviamo ad immaginare cosa sarebbe accaduto senza questa infiltrazione. Ripeto, tutto è possibile in una regione dove per troppo tempo, perlomeno dal 1996, si è consentito all’Eni di fare ciò che ha voluto, di comportarsi da padrona in casa nostra. Questo vorrei ricordarlo ai Folino e ai tanti troppo smemorati che ricostruiscono costantemente la storia a loro uso e consumo in base alle contingenze». 

Perché il Cova di Viggiano ha continuato a funzionare nonostante i serbatoi non rispettavano la sicurezza? Lo stesso Ad Descalzi rispondendo al ministro per lo sviluppo economico, Calenda lo aveva assicurato che la «società sta realizzando il doppio fondo nei tre serbatoi esistenti che non ne sono ancora dotati, il primo dei quali sarà completato entro maggio. Poi ancora in una nota del 22 marzo l’Eni dirà: Successivamente, Eni, indipendentemente dall’esito delle verifiche e per incrementare gli standard di sicurezza in maniera proattiva, aveva comunicato un programma per la realizzazione dei doppi fondi su tutti i serbatoi entro il 2017. Tale programma è in corso e sarà completato entro quest’anno». Perché, quindi, tornando alla domanda, il problema non è stato posto prima?
«Occorre rivoluzionare il sistema di controlli che abbiamo avuto fino ad oggi. Occorre che anche Unmig si assuma la sua bella fetta di responsabilità. Occorre che la sorveglianza sia continua, terza e credibile. Occorre che tutti comprendano, fino in fondo, che abbiamo innescato una bomba che rischia di esploderci tra le mani e che, quindi occorre disinnescarla di continuo. Nel nostro Paese – non parlo della Basilicata, ma dell’Italia tutta – siamo abituati a piangere lacrime di coccodrillo e ad intervenire a babbo morto. Ecco, meno lacrime postume e più senso di responsabilità a tutti i livelli. Questo vale anche e soprattutto per l’Eni, che, per quanto mi riguarda, è e resta un’azienda di Stato. Eni deve capire che in Basilicata è un ospite; un ospite che alcuni avrebbero preferito non ricevere e quindi deve rispettare la bellissima Valle che l’ha accolta, tutto sommato, a braccia aperte. Dico a braccia aperte perché, al di là di leggende metropolitane, i ceti dirigenti dell’epoca e anche i cittadini non hanno di certo innalzato barricate».

In Basilicata è stata sottovalutata l’importanza dell’articolo 251 del Codice dell’ambiente che stabilisce a regola l’istituzione, in ogni regione, del censimento e dell’anagrafe dei siti da bonificare? Perché è importante questo strumento di tutela?
«È importante, perché consente a tutti e a ciascuno di comprendere quali e quante parti del nostro territorio sono inquinate o potenzialmente inquinate. È importante, perché attraverso l’anagrafe si onora il diritto dei cittadini a poter conoscere per deliberare. Faccio io a te una domanda: vorresti sapere se sotto casa tua c’è un sito da bonificare? Ecco, l’anagrafe serve a questo. Non a caso, per anni, mi sono battuto per ottenere che la Regione rispettasse la sua propria legalità ed onorasse la legge e l’einaudiano diritto a poter conoscere per deliberare. Alla fine, dopo scioperi della fame e della sete, ad ascoltarmi è stata la giunta guidata da Marcello Pittella e di questo occorre dargliene atto». 

Qual è il punto sull’informazione riguardante queste vicende? La trasparenza, la facilità di accesso e il diritto alla conoscenza da parte dei cittadini sono garantiti?
«Alcuni uffici pubblici garantiscono il diritto di accesso all’informazione ambientale. Altri non riescono ancora a sintonizzarsi con la Convenzione di Aarhus e con le leggi della Repubblica che, a chiare lettere, sanciscono il diritto umano e civile alla conoscenza. Aggiungo che sta montando in queste ore la sgradevole sensazione che in certi uffici ci sia una sorta di timore reverenziale nei confronti delle compagnie petrolifere. Questo è inaccettabile. Negli ultimi mesi ne ho sentite di tutti i colori: la Total che prova ad accampare il segreto industriale, l’Eni che si arrampica sugli specchi per ritardare l’accesso agli atti. Tutti i funzionari pubblici dovrebbero onorare quell’art. 98 della Costituzione nel quale si afferma che “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”. Ecco, al servizio della nazione, non delle compagnie petrolifere».

Ferdinando Moliterni

Fonte: Il Roma – Basilicata

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