Il diritto alla difesa e quello di informare
Per evitare gogne mediatiche e fughe di notizie nelle inchieste basta applicare correttamente le norme già esistenti. Le indagini sono segrete, il dibattimento è pubblico. Sembra un’affermazione ovvia per tutelare la ricerca della verità giudiziaria, evitare che i colpevoli possano darsi alla fuga, costruirsi un alibi o sviare le indagini. Ho scritto “sembra” perché nella realtà non è così. Le informazioni sulle indagini, anche quelle coperte dal segreto, vengono divulgate spesso dai media, anche quando vi è solo una iscrizione sul registro degli indagati e talvolta lo stesso interessato apprende la notizia dai giornali. Per analizzare questa stortura Repubblica ha ospitato nei giorni scorsi gli interventi di Giuseppe Pignatone, di Stefano Rodotà e di Gherardo Colombo.
I contributi del capo della Procura di Roma, dell’ex Garante della privacy e di un autorevole pm che si è dimesso dalla magistratura dopo decenni di impegno per la giustizia, hanno il merito di basarsi su esperienze vissute arrivando a conclusioni che, pur con approcci in parte diversi, hanno molto in comune. E soprattutto hanno lo stesso obiettivo: ribadire la necessità delle intercettazioni, ma evitarne l’abuso; arginare, per quanto possibile, le fughe di notizie; tutelare la privacy e porre fine alle frequenti “gogne mediatiche”, innanzitutto nei confronti di chi è stato casualmente intercettato.
La questione è complessa perché in gioco c’è più di un diritto di rilevanza costituzionale: il diritto di difesa, il diritto di informare e di essere informati, la tutela della privacy. D’altra parte c’è il dovere, in presenza di un reato, di fare le necessarie indagini e individuare il responsabile. Quello che bisogna raggiungere, dunque, è un equilibrio molto delicato e difficile. La bilancia non deve pendere da una parte o dall’altra, nessuno dei diritti in gioco può essere sacrificato. Non voglio semplificare troppo, ma a me pare che non siano le norme vigenti a dover essere modificate. Quello che bisogna riuscire ad ottenere è la loro corretta applicazione.
Sulle intercettazioni la legge è chiarissima: il giudice, su richiesta del pm, può autorizzare questo “strumento di ricerca della prova” solo in presenza di “gravi indizi di reato e se assolutamente indispensabile per la prosecuzione delle indagini”. I dati, e i risultati, ci dicono che spesso non è così. Unanime è il “sì” alle intercettazioni, ma senza abusi.
I dati, e soprattutto i risultati, ci dicono invece che di questo delicatissimo strumento non raramente si è abusato. Tanto è vero che, là dove i procuratori della Repubblica hanno invitato i loro sostituti a una maggiore attenzione, sono diminuite le intercettazioni, le fughe di notizie e i costi, senza incidenze negative sulle indagini e sul loro esito. Norma, quindi, non da modificare, ma da applicare correttamente.
Diversa, invece, è la questione della fuga di notizie e la divulgazione di informazioni segrete, che costituiscono un reato definito gravissimo da Pignatone in quanto danneggiano le indagini “più o meno gravemente”. Rodotà ricorda che, come Garante della privacy, in più occasioni aveva stigmatizzato la diffusione di notizie non rilevanti e pregiudizievoli per l’interessato e che influiscono negativamente sulle indagini. Eppure, anche qui, le norme sono chiare: è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti coperti dal segreto e degli atti non più segreti fino a che non siano concluse le indagini preliminari (art.114 c.p.p.).
Gli atti di indagine sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa venire a conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari (art. 329 c.p.p.). Il riferimento alla conoscenza da parte dell’imputato (e non della persona sottoposta ad indagini) è significativa: solo con la richiesta di rinvio a giudizio, infatti, e quindi al termine delle indagini, un soggetto “assume la qualità di imputato”.
Eppure, pur in presenza di continue violazioni di tali norme, le inchieste sulle fughe di notizie sono limitatissime e i processi ancora più rari. Certo, si tratta di accertamenti non facili, ma l’obbligatorietà dell’azione penale è un principio costituzionalmente garantito. Ed è vero, come ricorda Pignatone, che il reato previsto per chi pubblica atti di cui sia vietata la pubblicazione può essere estinto con l’oblazione e col pagamento di una somma limitata, ma è altrettanto vero che il giudice può respingere la richiesta di oblazione “in caso di gravità del fatto”.
Già oggi, quindi, sono possibili maggiori controlli e, quando necessario, sanzioni, anche solo disciplinari e deontologiche (sono da sempre contrario alla pena del carcere per i giornalisti, anche in caso di diffamazione).
Se però, come spesso avviene, vi sono interpretazioni diverse, bisogna trovare una soluzione che ponga fine a una situazione non più tollerabile e che incide negativamente sulla fiducia nella giustizia. Un primo importante passo avanti è stato fatto da alcuni procuratori della Repubblica, tra cui per primo proprio Pignatone, che hanno impartito direttive, tese ad evitare la trascrizione delle intercettazioni processualmente non rilevanti o che riguardano persone non indagate. Ed è positivo che il Consiglio superiore della magistratura si sia espresso favorevolmente, invitando tutte le procure a seguire quelle indicazioni.
Non solo: in Parlamento è in corso di approvazione, tra polemiche e divisioni (tanto per cambiare!), una legge delega che va in tale direzione. Il ministro della Giustizia ha già dichiarato che per il necessario decreto legislativo chiederà la collaborazione di quei magistrati che già hanno istituito prassi virtuose. Siamo a un bivio che può fare chiarezza su interpretazioni parziali e differenti delle norme esistenti. Ma non si dica che si intende limitare la libertà di stampa. Ogni diritto, del resto, prevede, e non può che prevedere, il rispetto di altri diritti.
Giuliano Pisapia
Fonte: La Repubblica