Il signor K. e quell’arresto alle sei del mattino
Quando alle sei di mattina sentì bussare insistentemente alla porta, e poi due ufficiali cortesi (ai colletti bianchi si riservano certe attenzioni) gli consegnarono un’ordinanza di custodia cautelare di 1.500 pagine nella quale doveva cercare le ragioni del suo arresto, quando infine colse l’angoscia nel viso dei suoi figli e vide gli occhi di sua moglie riempirsi di lacrime, il signor K. sentì il mondo crollargli addosso. Ma fu un attimo, subito si consolò pensando che quanto gli stava accadendo dimostrava “la possibilità di punti di vista diversi nella fisiologica dialettica processuale”. Ossia, come ha spiegato il Procuratore della Repubblica facente funzioni qualche giorno fa, commentando una raffica di arresti annullati da parte del Tribunale del Riesame. Così poi, mentre chiuso nella sua cella tentava di decifrare la ponderosa ordinanza del Gip, mentre leggeva che i Pm avevano dichiarato ai giornalisti che la sua colpevolezza era certa e indiscutibile (non semplicemente un “punto di vista”), il signor K. dominò la rabbia che sentiva montargli dentro e, sia pur con difficoltà, si sforzò di accettare le imperiose esigenze della “dialettica processuale”, e di comprendere quanto era giusto che la sua insignificante persona fosse immolata alla sacralità dei “diversi punti di vista”. Solo un dubbio continuava a turbare la ritrovata serenità del signor K. “Se si ammette che i punti di vista possono essere diversi, vuol dire che gli stessi Pm non sono del tutto certi del loro. Ma anche la sola possibilità di una ipotesi alternativa – ragionava tra sé – non dovrebbe escludere che si ricorra alla custodia cautelare in carcere, la famosa ultima ratio?”. In fondo, pensava, la differenza tra un cittadino e un suddito è tutta qui: il cittadino gode di diritti assoluti e inviolabili, mentre gli interessi del suddito sono sempre subordinati a quelli superiori dello Stato (e quindi della “fisiologica dialettica processuale”). Che, poi, non gli riusciva proprio di vederlo, questo “Stato della Costituzione più bella del mondo”, nelle immagini televisive della conferenza stampa in Procura, nella parata di carabinieri impettiti e nel Pm di turno che, anziché illustrare con continenza il suo “punto di vista”, si esibiva in disquisizioni di vaga impronta sociologica, impartendo lezioni di moralità. Giunse persino a sospettare – ma bisogna capirne lo stato d’animo – che il suo arresto potesse essere usato da qualcuno come un’occasione di carriera, e questo non gli pareva una cosa propriamente morale. Pensò che la sua storia avrebbe potuto entrare in qualche libro scritto da un Pm (magari a quattro mani con un cronista giudiziario), che lo avrebbe bollato per sempre come un delinquente, anche se di qui a mille anni il processo dovesse assolverlo o ridimensionare le accuse. E non gli sembrò giusto. Pensò che quello del Gip è proprio un mestiere difficile. Dover valutare il lavoro di decine di poliziotti e di vari Pm, studiare migliaia di carte e poi, da solo, decidere della sorte di persone in carne ed ossa (non delle carte). Giunse a immaginarselo piccolo piccolo, pressato dalla Procura perché facesse presto, “esitasse” in fretta le richieste. E magari pure i suoi superiori, periodicamente, gli chiedevano conto degli arresti sui quali non aveva ancora deciso. E pensò che così non va bene, che sarebbe meglio non dargli premura, perché il giudice frettoloso, diversamente dalla gatta, arresta tutti. Pensò che hanno torto Ministero della Giustizia e Csm a considerare la riduzione dei tempi come un’auspicabile “performance”. Certo, il processo deve avere una durata “ragionevole”, ma la vera “performance” per un giudice è decidere bene, non decidere in fretta. Perché la decisione richiede pazienza: “conta dieci volte prima di parlare”, figuriamoci prima di arrestare! E, a questo punto, venne preso dallo sconforto. Si immaginò di vivere una storia in cui la sua vicenda personale non contava nulla o quasi. Lui, i suoi comportamenti, la sua famiglia, il suo futuro, poco più di un fondale di scena per attori diversi, per un altro copione. Quello di gente impaurita che chiede di essere protetta dalla criminalità, di poliziotti e giudici che tentano di rassicurarla con raffiche di arresti e conferenze stampa, poco importa se seguiti da condanne o assoluzioni. Una storia di “fisiologica dialettica processuale”, in cui tutti possono dimostrare di avere ragione salvo il malcapitato di turno che ci si trova in mezzo. Di statistiche per provare che lo Stato combatte il crimine efficacemente, di cifre asettiche, falsamente dimostrative. Una storia di carriere costruite su questi numeri. E lo sconforto si trasformò in paura.
Nicola Quatrano – Corriere del Mezzogiorno
Fonte: Ristretti Orizzonti